Virgilio Milani era uno scultore

Autorizzati da FARE DECORAZIONE si pubblica di Marco Lazzarato l'articolo pubblicato nel numero 14 Il decoro dello scultore

Virgilio Milani era uno scultore. Ovvia constatazione che implica, come vedremo, una personale e tutt’altro che ovvia scelta deontologica. Egli frequentò l’Accademia di Belle Arti di Venezia all’inizio del ’900, avendo come maestro Antonio Del Zotto, autore, fra l’altro, del monumento a Goldoni, collocato a Venezia, in Campo San Bartolomeo, giù dal ponte di Rialto. Anche Del Zotto quindi era uno scultore, appartenente però alla formidabile generazione di fine ’800, liquidata come “accademica” dalla cultura novecentesca, ma autrice dell’impressionante statuaria celebrativa che il neonato stato unitario collocò in ogni sua piazza. Fatta, per così dire, la tara sulla poetica verista di tali artisti, rimangono ancor oggi innegabili due cose: la loro mostruosa abilità e, cosa più importante per noi, la loro sublime capacità di dialogare con il decoro urbano. Se, per paradosso, in Italia si togliessero tutte le statue di Vittorio Emanuele II, nessuno noterebbe la cosa, ma se, al contrario, se ne togliessero i piedistalli per portarle a livello del suolo, tutta l’immagine che noi abbiamo delle nostre piazze verrebbe snaturata. I piedistalli sono il vero capolavoro di questa generazione di scultori, autentici monumenti al decoro urbano e alla funzione civile dell’opera d’arte. Raffinate invenzioni plastiche in grado di coniugare funzione pratica, con le sedute tutt’attorno, con la funzione etico-estetica di elemento catalizzatore del contesto urbanistico, che parallelamente si stava modificando con i grandi sventramenti degli angusti vicoli medioevali. A questa scuola si formò il giovane Milani.
Virgilio Milani, perciò, non era un decoratore, ma ciò nonostante la Decorazione fu parte integrante della sua formazione, avvenuta oltretutto in una scuola dove Architettura era ancora presente come corso di studi e la scuola di Decorazione ne era la degna sorella. Tornato a Rovigo egli si cimentò nella decorazione plastica della facciata di una palazzina, ma capì subito che non era la sua arte: seppur corretta nella composizione e brillante nell’invenzione, risultava troppo “pesante” e “satura” per essere convincente come Decorazione. Lui era uno scultore! Ma in grado di parlare correntemente il linguaggio dell’architettura e del suo decoro! Nel secondo dopoguerra, in quanto scultore affermato, intervenne sistematicamente negli edifici della nuova Rovigo, come testimonia il percorso recentemente inaugurato, realizzando opere esemplari dal punto di vista dell’arte pubblica e del decoro urbano. Solo su due di queste focalizziamo la nostra attenzione, perché rappresentano altrettanti casi-limite di uno scultore che, negli interventi di arte pubblica, ha talmente chiara la priorità del decoro nel dialogo con l’architettura, da rinunciare addirittura ad essere tale.
Il primo dei due casi è il leone posto nel palazzo dell’Erario, all’inizio di via Angeli. Dal punto di vista della scultura siamo di fronte al nulla: la sagoma di un leone tratta dai sigilli di stato del periodo, inquadrata in un enorme cartiglio comprendente la scritta ERARIO. Il tutto in cemento colorato di rosso. A paragone del bassorilievo posto solo un centinaio di metri più avanti nel Palazzo INA e autentico capolavoro di scultura pubblica, dagli esiti quasi rinascimentali, nel suddetto leone ci sembra che Milani tradisca se stesso. Cambiando chiave di lettura però le cose appaiono diverse. Il palazzo è uno squallido cubo razionalista, posto all’inizio di una stretta via cittadina. In sé l’architettura non sarebbe del tutto mediocre, perché il verbo razionalista viene declinato con finezze ed attenzioni che indicano comunque una certa cura da parte del progettista. Il problema nasce dal fatto che esso non torreggia isolato sopra una collina, in modo da poter essere apprezzato nel suo insieme, ma è collocato in uno snodo urbano assolutamente angusto. Questo fa sì che la parte più indecorosa del palazzo, cioè l’angolo posteriore privo di finestre, risulti l’unica visibile nell’intreccio delle vie cittadine. In pratica, il punto che avrebbe richiesto un maggior decoro risulta essere occupato dal lato più indecoroso dell’edificio. E’ qui che, acutamente, Milani interviene, e decide di farlo con una non-scultura, se la definizione è lecita. Un qualsiasi rilievo plastico avrebbe tradito lo spirito razionalista dell’edificio e sarebbe risultato eccessivo rispetto all’angusto spazio urbano da cui si sarebbe potuto vedere. Ecco allora l’idea del cartiglio, che inquadra e vivifica uno spazio vuoto, e delle sagome che, seppur in rilevo, non alterano l’idea di superficie del palazzo. Intervento minimale ma perfetto: risolve il problema del decoro senza essere, in sé, né decorazione né scultura in senso stretto.
Un caso simile, ma con implicazioni di decoro urbano più gravi, viene affrontato da Milani nel decoro del nuovo edificio del liceo classico Celio. Scuola costruita con tutti i crismi della modernità, che comportavano una notevole cubatura finale dell’edificio, posto però anch’esso all’imbocco di una stretta via. Qui la questione era più delicata: la via è centralissima perchè parte dalla piazza del Duomo e conduce all’ospedale (ora dismesso) creando un fuga prospettica, alterata però proprio dalla volumetria abnorme del nuovo edificio rispetto alle altre costruzioni. Anche in questo importante cono prospettico, il punto di maggior visibilità dell’edificio risultava essere il suo lato più indecoroso, cioè un angolo senza alcuna finestra. Qui Milani inventa l’azzeramento dello spigolo pensando l’intera volumetria come superficie piana. L’artificio che utilizza è quello di pensare ad un’opera unitaria che però copra i due lati dell’edificio in modo da far prevalere la lettura dell’immagine alla percezione della volumetria dell’angolo. Per ottenere questo risultato abbandona anche in questo caso la scultura e utilizza il mosaico lapideo, con una esemplare citazione dei mosaici romani, declinando temi storico-mitologici classici congrui con la funzione dell’edificio, e completando il tutto con un rivestimento delle pareti in trachite disposta irregolarmente a “palladiana”. Tale rivestimento (che ora crea qualche problema di sicurezza) smaterializza le pareti impedendone la percezione della reale volumetria e incornicia il mosaico, facendone risaltare il candore che completa l’effetto-superficie. Un imbarazzante volume architettonico diventa così un elegante fondale dipinto, che, contemporaneamente, chiude piazza del Duomo e arricchisce una centralissima prospettiva cittadina.
FARE DECORAZIONE numero 14
FARE DECORAZIONE numero 14

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